Il 29 Novembre le Nazioni Unite chiamano il mondo alla solidarietà con il popolo palestinese. Noi abbiamo intervistato Ilaria Masieri, fiorentina, per sette anni cooperante in Palestina oggi responsabile per i progetti in Libano e Palestina della ONG Terre des Hommes Italia.
Verdi Firenze: Ciao Ilaria, ci racconti come è nato il tuo rapporto con la Palestina?
Ilaria Masieri: Sono partita per la Palestina la prima volta nell’estate del 2009, ma la passione per la Palestina è nata molto prima. In parte deriva dalla mia famiglia, i miei genitori erano legati alla battaglia del popolo palestinese e in casa ne parlavamo molto; in parte è dovuta al fatto che all’epoca delle mie superiori era il momento degli accordi di Oslo, della prima Intifada, e quindi di Palestina si parlava molto ovunque. Mi sono appassionata alla questione palestinese e così, quando ho dovuto scegliere l’università, ho scelto di studiare arabo. Mi interessava soprattutto guardare alla storia del Mediterraneo da un’altra prospettiva. Una volta fatta quella scelta da lì la strada è stata tutta in discesa, con l’università, la scuola di cooperazione, e poi la partenza.
VF: Per quanto tempo hai vissuto nei territori e in cosa consisteva il tuo lavoro?
IM: Sono stata lì sette anni, partita come stagista dopo aver fatto un corso a Firenze che prevedeva un periodo di stage. Sono rimasta perché mi hanno offerto un contratto. In quei sette anni ho attraversato un po’ tutti i ruoli che si possono ricoprire in una ONG. Da stagista sono diventata coordinatrice, poi capo-progetto e infine responsabile della delegazione.
Da oltre dieci anni lavoro quasi ininterrottamente con “Terre des Hommes Italia”, che fa parte del movimento internazionale “Terre des Hommes” e si occupa della protezione dei diritti dell’infanzia. In particolare, in Palestina i nostri progetti – essenzialmente finanziati da donatori istituzionali e in piccola parte da donazioni private – si occupano di diritto all’istruzione, alla salute, al gioco e allo sviluppo naturale del bambino. Lavoriamo sia in Cisgiordania che a Gaza, e negli ultimi anni soprattutto a Gerusalemme Est.
VF: La questione palestinese è progressivamente scomparsa sui mezzi di comunicazione nel corso degli anni. Qual è secondo te il motivo?
IM: Sicuramente conta il fatto che in generale si tende a parlare delle crisi umanitarie solo nel momento di massima emergenza. Per questa ragione la questione palestinese, che ha una storia molto antica, fa meno notizia e ha meno presa sull’opinione pubblica in quanto percepita come irrisolvibile. Come se fosse ormai un problema intrinseco al contesto mediorientale, dove si intrecciano grandi interessi internazionali e che pur rimanendo una polveriera risulta una matassa di cui è difficile trovare il bandolo. Ultimamente si è dato spazio nei media alle decisioni del Governo statunitense di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme e di non considerare più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, senza dare altrettanto spazio alle conseguenze di decisioni sulla popolazione palestinese, pertanto l’opinione pubblica può convenire che si tratti di decisioni legittime proprio perché è poco informata.
Infine esiste, e si vede anche in queste settimane nel dibattito pubblico italiano, una confusione sostanziale tra lo stato di Israele, la questione palestinese, l’occupazione della Palestina e il problema dell’antisemitismo. Per questo poi chiunque provi a prendere una posizione pubblica in favore della battaglia del popolo palestinese rischia di venir tacciato di antisemitismo. Questo sicuramente scoraggia.
VF: Qual è oggi la situazione nella striscia di Gaza e in Cisgiordania?
IM: La situazione attuale, purtroppo in costante peggioramento, è quella di una crisi protratta. Non si parla neanche più di emergenza, perché l’emergenza prevede che ci sia un momento di altissimo bisogno alternato a momenti di stabilità. E qui i momenti di stabilità dal punto di vista economico e sociale non esistono più. La situazione è in costante peggioramento, con momenti di gravissima crisi, che sono quelli in cui essenzialmente noi arriviamo. È una condizione che sicuramente nell’ultimo biennio è peggiorata, soprattutto a causa della politica estera degli Stati Uniti, in particolare delle dichiarazioni e dei gesti che si sono susseguiti da quando Trump è diventato presidente. Di fatto queste hanno dato via libera al governo israeliano su Gerusalemme, sulle alture del Golan e recentemente anche sulla valle del Giordano e sulla Cisgiordania tutta. Per questa ragione si assiste a una colonizzazione feroce e in costante aumento, nonché alla sistematizzazione e ormai istituzionalizzazione della violazione dei diritti della popolazione palestinese. Ci sono comunque delle aree dove la crisi è particolarmente acuta, in questo periodo (ma ormai da molti anni) la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. Per ragioni molto diverse ma con conseguenze purtroppo simili.
VF: Se un ultimo momento di speranza si era avuto con i discorsi di Obama al Cairo, il tentativo fatto all’epoca è sicuramente fallito. Tu come te lo spieghi?
IM: Io ne do una lettura molto semplice, ovvero che il governo israeliano non ha interesse a cercare la pace con i palestinesi. Il mantenimento dello status quo, che ormai nessuno sa neanche dire da dove provenga (di sicuro non da Oslo (accordi firmati nel 1993-95), non da Camp David (colloqui di pace svolti nel 2000), non dalle posizioni pubbliche prese dall’Unione Europea o dagli Stati Uniti, bensì da una situazione di stallo politico), favorisce essenzialmente gli interessi israeliani.
Se Israeliani e Palestinesi si dovessero seriamente sedere a un tavolo delle trattative, Israele in quanto potenza occupante e di fatto vincitrice (è un dato di fatto se lo si guarda in termini di occupazione di territorio, economia, potere, conformazione interna della società e dello stato) dovrebbe affrontare tre grandi nodi irrisolti che la questione palestinese si porta dietro fin da Oslo. Questi sono essenzialmente il problema di Gerusalemme, delle colonie, e del diritto al rientro dei rifugiati palestinesi che vivono fuori dalla Palestina. Su queste cose Israele non ha alcun tipo di interesse a fare concessioni.
I Palestinesi della diaspora non entrano in Israele, e non c’è modo neanche da parte della comunità internazionale di forzare la mano al diritto di uno stato di non concedere visti d’ingresso sul proprio territorio a cittadini stranieri. Sulla questione di Gerusalemme, di fatto Israele la considera come propria capitale fin dal 1980, e ha ricevuto su questo un forte endorsement da parte di Trump. Anche se il suo discorso non ha appieno rispecchiato ciò che Israele avrebbe voluto, è stato un messaggio forte e di fatto Gerusalemme sta venendo colonizzata quotidianamente. Basti pensare che ormai a Gerusalemme Est ci sono trecentomila abitanti palestinesi e duecentomila coloni israeliani. La questione delle colonie è altrettanto impossibile da affrontare, ma senza affrontarla è impossibile pensare alla creazione di uno stato palestinese. È anche vero che non esiste un fronte comune palestinese, e non esiste alcuna forma di alleanza che possa farsi portavoce delle istanze palestinesi – come è stato in passato l’Egitto di Nasser o in minima parte l’Iraq di Saddam Hussein. Il mondo arabo è fortemente diviso al suo interno, proprio su interessi che riguardano il Medioriente.
VF: Le responsabilità del governo Israeliano e statunitense sono abbastanza chiare da quello che ci racconti. Ma pensi che ci siano anche responsabilità da parte di altri attori che possono essere disinteressati a una soluzione pacifica?
IM: Assolutamente sì, il disinteresse è direi la cifra generale, ed è sicuramente condiviso anche da tutto il mondo arabo. Vari attori sono interessati a mantenere l’equilibrio esistente nell’area. E poì c’è la grande responsabilità politica di Fath e Hamas, le divisioni interne alla leadership palestinese rendono quasi impossibile trovare delle istanze comuni.
VF: Tu pensi ci sia qualcosa che possiamo fare, partendo dall’Europa e dall’Italia per arrivare a livello comunitario o individuale? C’è qualcosa che si può fare per il popolo palestinese, oltre a condividere un post sui social?
IM: Io credo che si possa fare moltissimo. Per chi se lo può permettere credo valga davvero la pena andare a vedere con i propri occhi come stanno le cose, perché è una situazione in cui le ingiustizie e le violazioni dei diritti delle persone sono così evidenti da risvegliare immediatamente le nostre coscienze.
Poi ci sono moltissimi gesti che ognuno può fare. Innanzitutto, è importante informarsi e parlarne, partecipare a iniziative, cercare di fare attenzione nel nostro piccolo alle scelte quotidiane, come l’acquisto di prodotti o i messaggi che condividiamo. Questo vale anche per quanto riguarda i nostri ruoli professionali, e penso agli insegnanti, alle scuole, a chi ha accesso alla sfera politica.
Credo che l’Italia possa e debba fare tantissimo in quanto paese e in quanto membro dell’Unione Europea. Si tratta soprattutto di fare rispettare il diritto internazionale, perché non bisogna inventare niente affinché i palestinesi e le palestinesi, e in particolar modo bambini e bambine, vedano riconosciuti i propri diritti essenziali – a partire dal diritto alla vita, all’espressione, allo studio. È tutto già a disposizione: ci sono le convenzioni, i trattati, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ciò che serve è che il nostro governo, a partire dai governi locali, si prenda la responsabilità di fare rispettare queste convenzioni. Sono convinta che dal momento in cui si abdica al proprio dovere di far rispettare le leggi internazionali – anche se lontano da noi – ciò che stiamo dando via sono non solo i diritti altrui, ma anche i nostri.
Questo è valido anche da un punto di vista ambientale. Leggevo stamattina del gravissimo problema di smaltimento dei rifiuti all’interno della Striscia di Gaza. A Gaza non ci sono fognature, perché sono state bombardate, i materiali per ripararle non possono entrare in quanto soggetti a un possibile doppio uso (secondo le norme imposte da Israele potrebbero essere utilizzati per fabbricare armi), le tre discariche di Gaza sono piene e non è quindi possibile in nessun modo smaltirli o sistemarli in maniera razionale, e i rifiuti non possono uscire dalla Striscia di Gaza perché Israele non lo consente. Ecco, Gaza è sul Mar Mediterraneo e si parla di duemila tonnellate di rifiuti indifferenziati al giorno. Ci riguarda tutti, perché è l’altra sponda del Mediterraneo. Non è un viaggio lungo, né con la mente né fisicamente. Sono i nostri vicini di casa.
VF: Grazie Ilaria per il tuo tempo e buon lavoro.
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La foto di copertina è gentile concessione di Alessio Romizzi.
Pubblichiamo l’appello promosso da Caterina Arciprete, Lucia Ferrone e Caterina Francesca Guidi a un anno dal rapimento di Siliva Romano.
“Amo piangere commuovendomi per emozioni forti, sia belle sia brutte, ma soprattutto amo reagire alle avversità.
Amo stringere i denti ed essere una testa più dura della durezza della vita. Amo con profonda gratitudine l’aver avuto l’opportunità di vivere»
Silvia Romano
Il prossimo 20 novembre 2019 ricorre 1 anno dal rapimento della 24enne cooperante italiana Silvia Costanza Romano, rapita mentre faceva volontariato con i bambini in un villaggio del Kenya con la Onlus italiana Africa Milele. Di Silvia non si hanno notizie certe da oltre 11 mesi. Negli ultimi mesi si sono alternate notizie ufficiali ed ufficiose sulle dinamiche del rapimento, ma l’unica verità è che è passato un anno e non sappiamo Silvia come sta, se sta bene, se è protetta, se è viva.
La politica italiana non sembra impegnarsi a sufficienza per la liberazione della cooperante milanese. Un silenzio assordante che vogliamo riempire con la nostra voce.
Ci stringiamo intorno alla famiglia di Silvia e chiediamo al Governo di mobilitarsi in tutti i modi possibili e di chiarire la situazione affinché non debba passare più un giorno senza Silvia.
Chiediamolo tutt* insieme
il 20 Novembre 2019 dalle ore 18.00 alle ore 19.00
Piazza dei Ciompi, Firenze
Per aderire al sit-it manda una mail a: unannosenzasilvia@gmail.com
Possono aderire singoli, associazioni, organizzazioni, università e partiti politici.
LISTA PROMOTRICI “Donne per Silvia”
Caterina Arciprete
Lucia Ferrone
Caterina Francesca Guidi
SOTTOSCRITTORI – ASSOCIAZIONI (in continuo aggiornamento)
Verdi Firenze
AGESCI, Firenze
Anelli Mancanti
Arci Firenze
Associazione Piazza della Vittoria
CNGEI, Firenze
Comitato Fermiamo la Guerra
Comitato Firenze Possibile “Piero Calamandrei”
Comitato Firenze Possibile “Arianuova”
COSPE
È viva, Toscana
Emergency Firenze
Europa Verde Toscana
Firenze Città Aperta
Gruppo consiliare in Sinistra Progetto Comune
Gruppo scout AGESCI Firenze 12
Libere Tutte
Associaçao Angolana Njinga Mbande
Nosotras
OXFAM
PD Metropolitano di Firenze
Piccola Scuola di Pace dell’Isolotto “Gigi Ontanetti”
Potere al Popolo – Firenze
Movimento Federalista Europeo, Firenze
Progetto Arcobaleno
Rete Antirazzista di Firenze
Rifondazione Comunista Firenze
Senso Comune Firenze
Società della Ragione
Sì Toscana a Sinistra
Sinistra Italiana Toscana
Sinistra per Lastra
Volt Firenze
SOTTOSCRITTORI (primi 30 aderenti in ordine alfabetico)
Jacopo Bencini
Alessandro Bezzi
Moreno Biagioni
Mario Biggeri
Ugo Biggeri
Antonella Bundu
Marcella Bresci
Sandra Carpi Lapi
Duccio Chiarini
Lorenzo Ci
Claudia Cultraro
Daniela Chironi
Nicoletta Dentico
Pape Diaw
Tommaso Fattori
Patrizia Faustin
Lorenzo Fiesoli
Chiara Gaspari
Vittorio Iervese
Andrés Lasso
Antonella Lamberti
Daniela Lastri
Paolo Maggi
Dmitrij Palagi
Luisa Petrucci
Antonella Pino
Francesca Rossetti
Serena Spinelli
Massimo Torelli
Donella Verdi
Di Gianni Scotto*
La versione originale di questo pezzo è apparsa sulla Aspenia on line, curato dall’Aspen Institute Italia, che ringraziamo. Giovanni Scotto è professore di Sociologia all’università di Firenze, e membro del Comitato scientifico dei Verdi italiani. E’ tra i fondatori della Piccola scuola di pace “Gigi Ontanetti” a Firenze.
Nella prima settimana di settembre, l’osservatorio sull’atmosfera di Mauna Loa, alle Hawaii, ha misurato un concentrazione di CO2 di 408,80 parti per milione (ppm), con un aumento rispetto alla stessa settimana dell’anno precedente di 3,30 ppm. Questi numeri parlano di una realtà assolutamente allarmante: l’aumento della CO2 nell’aria segue un andamento esponenziale, ed è in netta accelerazione negli ultimi anni. Alla fine della guerra fredda la media decennale di aumento era intorno alle 1,5 ppm all’anno. Negli ultimi anni il valore annuale medio ha sfiorato o raggiunto le 3 ppm. A settembre è sembrata esserci un’accelerazione ulteriore.
Nel corso del 2019 la CO2 ha toccato un massimo stagionale di 415 ppm, e l’aumento medio delle temperature rispetto all’epoca pre-industriale è già di oltre 1°C. L’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, forum scientifico creato dall’ONU) lo scorso ottobre ha ammonito la comunità internazionale: è indispensabile rimanere sotto il grado e mezzo di aumento entro la fine del secolo, e per far questo bisogna dimezzare le emissioni entro il 2030, azzerarle per il 2050.
Troppo facilmente decisori politici e commentatori accantonano evidenze del mondo fisico. Giova rammentare che sappiamo dell’effetto serra dovuto alla CO2 nell’aria da oltre un secolo. Sappiamo che il sistema industriale emette questo ed altri gas climalteranti in misura significativa. Da oltre quarant’anni è chiara la possibilità del riscaldamento globale. Gli studiosi in modo pressoché unanime hanno individuato l’esistenza del problema, le cause e le sue gravissime implicazioni.
E’ alquanto surreale che 20 anni dopo ci sia ancora un dibattito sulla realtà del cambiamento climatico!
Il sistema internazionale ha provato a rispondere al problema del cambiamento climatico fin dal 1992, con la convenzione quadro di Rio, che detta tuttora le regole per la determinazione delle politiche globali per il clima. Il protocollo di Kyoto è del 1997 e indicava modesti obiettivi di riduzione rispetto al livello di emissioni del 1990, validi solo per i paesi industrializzati e peraltro in parte disattesi. Terminato nel 2012 il periodo di applicazione del protocollo, alla Conferenza di Parigi la comunità internazionale è passata a definire un obiettivo preciso – restare al di sotto dei 2 °C di aumento entro la fine del secolo – chiedendo agli stati impegni su base volontaria. Da parte loro, gli scienziati hanno valutato come insufficiente gli impegni formulati fino ad oggi.
La questione è che gli effetti del riscaldamento globale si stanno manifestando in diversi campi molto più rapidamente del previsto: dallo scioglimento dei ghiacci ai poli con conseguente aumento del livello dei mari, all’aumento di temperature, all’intensificarsi di eventi climatici estremi. L’estate del 2019 sarà anche ricordata per gli incendi che hanno devastato la Siberia, l’America Latina e l’Africa australe: a un tempo effetto e causa ulteriore del riscaldamento globale.
Gli Stati Uniti avevano identificato nel riscaldamento globale un problema di sicurezza già nella Strategia di Sicurezza Nazionale (NSS) del 1994: un quarto di secolo fa. Il cambiamento climatico è stato definito una “minaccia immediata e crescente alla sicurezza nazionale” nella più recente NSS del 2017. Questo riconoscimento sulla carta non ha però condotto a cambiamenti di policy rispetto alle emissioni di gas climalteranti. Nel nostro paese, il Libro bianco della Difesa del 2015 identificava il cambiamento climatico come uno di molti fattori di instabilità globale. Anche da noi, però, questa presa di consapevolezza è rimasta sulla carta.
Negli ultimi mesi, anche in risposta a una mobilitazione civica senza precedenti a livello praticamente globale (circa 150 Paesi), alcuni stati e autorità locali hanno prodotto delle Dichiarazioni di emergenza climatica. Si è trattato finora dell’espressione formale di un principio. Tuttavia dichiarare un’emergenza significa anche riconoscere alcune caratteristiche di fondo di ciò che accade: si tratta di una situazione nuova e eccezionale; questi fatti vanno compresi in termini di minaccia immediata al benessere, alla salute e alla sicurezza degli esseri umani di tutto il mondo, e delle comunità di cui fanno parte; alla nuova situazione è necessario dare una risposta straordinaria.
In altre parole, dichiarare l’emergenza climatica significa riconoscere e promuovere la securitizzazione del discorso sul riscaldamento globale. Se un tema entra a far parte della sfera di sicurezza, e viene compreso come un rischio evidente e immediato per i cittadini, è chiaro che la politica deve trovare risposte nuove su scala appropriata e di immediata applicazione.
Se le autorità di uno Stato – Parlamento, Governo – dichiarano lo stato di emergenza climatica, questo potrebbe rendere possibile adottare decisioni per la limitazione delle emissioni climalteranti – in campo economico, industriale, di politica dei trasporti etc – che non realizzabili possibili in regime di normalità ma potrebbero essere giustificati dalla securitizzazione del tema.
Gli Stati assumono regolarmente decisioni riguardanti la sicurezza nazionale seguendo norme e procedure diverse da quelle che regolano i casi normali; questo è in effetti un attributo fondamentale delle sovranità. La libertà di commercio può essere limitata, ad esempio vietando la vendita di asset strategici a investitori stranieri, o la diffusione di particolari tecnologie. Estendere la securitizzazione al problema del clima, prendendo decisioni eccezionali per la limitazione delle emissioni di CO2 sarebbe semplicemente un’estensione di un principio politico che gli stati riconoscono e utilizzano da sempre.
Un discorso simile può essere fatto per la determinazione delle politiche industriali. In questo caso non si tratterebbe di bypassare limiti normativi che si applicano a tempi normali, ma più semplicemente di cambiare i criteri per la scelta degli investimenti pubblici da compiere o gli obiettivi gestionali da perseguire. Provo a fare due esempi.
La tipologia e la qualità degli investimenti infrastrutturali andrebbe decisa non solo sulla base dei costi e benefici direttamente imputabili all’opera ma anche all’ammontare di emissioni dirette e indirette. E’ utile ricordare, riguardo a molte grandi opere, che la produzione di cemento è anch’essa una rilevante fonte di emissioni di CO2. Riorientare gli investimenti pubblici è condizione necessaria per l’urgentissima transizione di cui abbiamo bisogno.
Secondo esempio: tradizionalmente la produzione di idrocarburi viene considerata come un elemento strategico del sistema economico. Con la securitizzazione delle politiche di tutela del clima sarà opportuno considerare strategico anche l’ammontare delle emissioni imputabili agli idrocarburi estratti, considerando che 100 aziende sono responsabili per oltre il 70% delle emissioni di gas climalteranti.
Se, come dice l’IPCC, è imperativo per la sicurezza globale dimezzare le emissioni da qui al 2030, sarà necessario che le imprese di estrazione degli idrocarburi dimezzeranno la loro produzione per quella data. Come realizzare questo obiettivo mantenendo un equilibrio tra costi e ricavi, è una grande sfida tecnologica e di management. Molte aziende estrattive sono di proprietà pubblica: è così anche in Italia dove lo Stato è azionista di controllo. Per fare sul serio nella lotta ai cambiamenti climatici, lo Stato dovrebbe chiedere un piano di diminuzione controllata della produzione da qui al 2030, proprio perché la diminuzione delle emissioni è una vitale questione di interesse nazionale. Per mantenere l’Italia e il mondo nello stretto sentiero che può condurci a evitare il peggio.
Giovanni Mantovani, ingegnere trasportista, ex consulente del Comune di Firenze per il sistema tranviario e responsabile del procedimento di realizzazione della tratta SMN-Scandicci della linea T1, ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande sul sistema tramviario fiorentino.
Verdi Firenze: Entrambe le linee tramviarie attualmente in funzione sono un successo dal punto di vista del numero di utenti. Il rovescio della medaglia è però che i convogli sono sovraffollati nelle ore di punta, soprattutto per quanto riguarda la linea T1 da Scandicci verso la stazione SMN. Quali possono essere secondo lei le soluzioni a questa situazione?
Giovanni Mantovani: Mi consta che il sovraffollamento sia stato determinato, almeno in parte, dal successo del parcheggio di scambio di Villa Costanza e che questa causa verrà attenuata grazie all’utilizzo del parcheggio di scambio alla fermata Guidoni della T2 (che peraltro non ha ancora una grande capacità) in modo di principio analogo a quello di Villa Costanza. È comunque opportuno essere preparati a possibili incrementi di domanda della T1 (anche per effetto dell’ipotizzato prolungamento oltre Villa Costanza o dell’apporto di nuovo carico in arrivo a Porta al Prato con la T4).
Le soluzioni, ovvie, sono due: aumentare la frequenza o la capacità dei tram.
La prima soluzione pone problemi di interferenza tra T1 e T2 nella tratta comune (oggi in via Alamanni e piazza Stazione, con una fermata; in futuro fino a viale Strozzi, con tre fermate in tutto); sono però problemi risolvibili, fino a un certo punto, mediante la regolazione centralizzata. Non so se sia necessaria anche una revisione del rapporto economico tra Comune ed Esercente.
La seconda soluzione, certamente non di immediata attuazione, è fisicamente possibile, poiché le banchine di fermata sono lunghe 45 metri e possono quindi accogliere tram più lunghi di quelli attuali. Ricordo che in varie città europee è stato necessario e possibile, grazie alla struttura modulare, allungare tram già in esercizio mediante moduli aggiuntivi.
VF: L’attuale rete tramviaria ha una struttura radiale, con tutte le linee che convergono verso la stazione, con un sovraccarico del nodo di SMN, rimangono tuttora difficili i collegamenti di trasporto pubblico tra alcune zone senza dover obbligatoriamente passare dal centro. Esistono modifiche possibili che potrebbero migliorare il funzionamento della rete? Come vedrebbe la possibilità che alcuni tram bypassassero il centro percorrendo una direttrice viale Strozzi – viale Belfiore fino a Porta al Prato?
GM: Il nodo di SMN è un forte attrattore, anche perché è al bordo del centro storico, e quindi è necessario servirlo direttamente da più direttrici con linee forti. L’attuale struttura radiale, concentrata nel settore NW, avrà una favorevole evoluzione con la realizzazione delle tratte per Bagno a Ripoli e poi per Rovezzano. Purtroppo, pare che non si potrà realizzare un servizio diametrale e sarà necessario cambiare tram a Piazza Libertà, per evitare un’eccessiva sovrapposizione di linee su alcune tratte, ma ritengo che questo aspetto sia un aspetto da approfondire.
Un by-pass Viale Strozzi – Viale Fratelli Rosselli era presente nei progetti originali e ne resta traccia negli scambi, dismessi, all’angolo tra Viale Fratelli Rosselli e via Jacopo da Diacceto. Fu abbandonato in assenza di un valido modello di esercizio e su comprensibili pressioni di Scandicci, che voleva assicurato il collegamento diretto con gli accessi alla stazione SMN e al bordo del centro di Firenze. Potrebbe essere ripreso in considerazione, se venisse giustificato dalla definizione di un modello di esercizio che tenga conto rigorosamente dell’entità e della distribuzione della domanda, nonché della necessità di servire adeguatamente i principali attrattori.
Un’ipotesi di collegamento tranviario ancora più esterno è quello della linea T5 (utilizzante un nuovo tracciato ad andamento tangenziale tra Piazza Dalmazia e Via Foggini), prevista dal Piano strutturale. Anche il ruolo di questa linea andrebbe a mio parere riesaminato in un quadro generale del sistema tranviario.
VF: Questione tram e centro storico. Gli attuali progetti non prevedono più il passaggio del tram dal tracciato SMN-Cerretani-Martelli-Cavour-San Marco: quali sono le conseguenze di questa scelta secondo lei? Per quali motivi nel corso degli anni erano state accantonate anche le alternative di attraversamento del centro (sotterraneo o di superficie) da ovest a est?
GM: Ritengo che le conseguenze siano senz’altro negative, per due ragioni: si è perso il servizio diretto del centro e si è perso un secondo collegamento transitante per i due poli.
Devo dire ancora una volta che non c’è alcuna ragione trasportistica né urbanistica per la cancellazione voluta dalla nuova Amministrazione nel 2009. Anzi, la preservazione del carattere del centro, proteggendolo da involuzioni dovute al turismo e ad iniziative economicamente elitarie, richiede che sia ben servito dal trasporto pubblico. Il secondo collegamento avrebbe anche permesso, sulla tratta SMN – Libertà, di distribuire vantaggiosamente le linee su due itinerari. La ragione è stata meramente politica e, a mio avviso, non nella migliore accezione di questo termine.
Tra Piazza Stazione e Piazza Beccaria ci sono 2 km in linea d’aria e un tale spazio non può essere certamente coperto solo a piedi o con i bussini, tra l’altro con elevatissimo costo specifico di esercizio e con il disagio del cambio. Tra l’altro il tracciato definito nel 2002 non passa per il Duomo, come comunemente si dice, ma passa in Piazza San Giovanni, abbastanza lontano dal Battistero grazie a una breve tratta a binario semplice, per poi svoltare subito, prima del Duomo, in via Martelli. Attorno al Duomo passava un precedente tracciato, abbandonato avendo considerato gravi le difficoltà di inserimento nel tessuto viario.
E la pedonalizzazione non è ragione sufficiente: in Europa abbiamo molti esempi di valida e sicura convivenza tra tram e pedoni in strade interdette alla circolazione di altri veicoli.
Riguardo al sottoattraversamento del centro, penso che vi siano molte ragioni contrarie. Anzitutto il tessuto di edifici storici, senza un ampio corridoio libero, e le caratteristiche del sottosuolo obbligherebbero a un tracciato molto profondo, con fermate di complessa realizzazione e tali da dare tempi lunghi di accesso alle banchine dalla superficie. Inoltre, si tratterebbe di una realizzazione il cui costo non sarebbe giustificato dal limite di capacità imposto in superficie alla linea tranviaria (almeno per questo aspetto, diverso sarebbe stato pensare a una tratta sotterranea comune sulla quale convergessero, ai due lati, più bracci di superficie). Va anche considerato che ai capi della galleria vanno due rampe in trincea, squarci non facili da inserire in strade ai margini del centro, e che quindi la tratta sotterranea dovrebbe essere molto lunga.
VF: Spesso i contrari al passaggio in piazza Duomo hanno sottolineato che il Sirio è un tram di dimensioni notevoli. Il passaggio nel centro storico potrebbe essere reso meno impattante utilizzando convogli più corti?
GM: Il Sirio di Firenze è lungo 32 metri ed oggi le lunghezze tipiche dei tram sono tra i 30 e i 40 metri, necessarie sia a fini di sostenibilità economica, grazie alla riduzione del costo specifico per passeggero trasportato, sia di riduzione, a parità di capacità della linea, della frequenza dei passaggi. Infatti, una frequenza spinta non favorisce la regolarità e genera un impatto ambientale maggiore. Un tram da 35 metri che passa ogni 4 minuti dà meno fastidio visuale e minore riduzione della permeabilità trasversale, che un autobus da 18 metri che passa ogni 2 minuti. Quindi, l’uso di tram da 20-25 metri sarebbe possibile, ma darebbe luogo alle contropartite cui ho accennato.
VF: L’attuale progetto definitivo della linea 3.2 prevede un capolinea in viale Don Minzoni, non direttamente collegato al braccio proveniente da viale Lavagnini che ferma in Piazza della Libertà: come fare ad evitare questa rottura di carico per i passeggeri che provengono da Firenze sud diretti a SMN ma anche verso Careggi o l’aeroporto? [NDR Dalle nuove planimetrie di progetto presentate prima dell’uscita dell’intervista pare che il capolinea sia stato spostato da Viale Don Minzoni a Piazza della Libertà, più vicino ma comunque non coincidente con la fermata della Linea 2]
GM: È un problema cui ho accennato rispondendo alla seconda domanda. Posto che la T2 vada a Piazza San Marco, se non si accetta la sovrapposizione di tre linee sulla tratta Valfonda – Strozzi – Lavagnini, governandone al meglio le conseguenze, la soluzione sta solo nel ripristino del secondo collegamento Stazione – Libertà, attraverso il centro.
VF: Alcuni comitati cittadini hanno mostrato perplessità sulla realizzazione del un nuovo ponte che collegherà via Minghetti all’Albereta. È un’infrastruttura necessaria? Noi abbiamo sempre sostenuto il tram anche perché si basa su una logica semplice ed efficace: togliere spazio alle macchine creando un’alternativa all’uso dell’auto privata, costruire un altro ponte a quattro corsie non va contro questa logica?
GM: Non so dare una risposta netta, perché non ho dati. Osservo solo che in genere la creazione di un buon nuovo sistema di trasporto pubblico riduce il traffico automobilistico del 15-20% (la T1 è uno dei casi particolarmente fortunati). Poiché la sede esclusiva per il tram è fondamentale, basterebbe una coppia di corsie uniche per l’80% del traffico attuale?
VF: La linea 3.2 verso Firenze sud avrà il capolinea a Bagno a Ripoli. Cosa pensa della richiesta di prolungare la linea verso l’ospedale di Ponte a Niccheri?
GM: Anche per questa domanda non ho elementi per dare una risposta fondata. Mi pare che sarebbe necessario un prolungamento di circa 2 km. Occorre uno studio di prefattibilità, che analizzi il modo di realizzare il prolungamento e, stimata la domanda assegnabile, valuti se i costi di realizzazione ed esercizio possono essere giustificati (tenendo ovviamente conto anche dei possibili benefici sociali).
VF: Il sistema tramviario dovrebbe essere sempre più integrato con gli altri mezzi del trasporto pubblico locale: con i bus urbani ed extraurbani, ma anche con la rete ferroviaria presente sul territorio. Cosa manca a Firenze per poter implementare un vero Servizio Ferroviario Metropolitano a servizio della città e dei comuni circostanti?
GM: Manca un’offerta appropriata, basata su un cadenzamento adeguato, quindi su un’infrastruttura in grado di accettare piccoli intervalli tra i treni, sull’apertura di nuove fermate e sull’uso di materiale rotabile adatto ai servizi metropolitani. Mi pare che si stia in uno stato di attesa, legato ai tempi di liberazione dei binari di cintura per effetto della realizzazione della galleria dell’AV.
Non sarebbe male, nel frattempo, fare un rigoroso studio della domanda assegnabile a una rete SFM ottimale, integrata con tranvie e autolinee, per calibrare bene sia gli interventi sugli impianti sia i programmi di esercizio. Un aspetto importante è quello della differenziazione tra servizi metropolitani e servizi regionali, che pongono esigenze diverse, dei quali non è però facile una netta separazione.
È anche importante ridurre le duplicazioni tra autolinee, suburbane e extraurbane, e servizi ferroviari e puntare, dove non ci sono serie controindicazioni, ad autoservizi di adduzione alla ferrovia, a pettine.